giovedì 22 maggio 2014

La generazione mai. I precari della ricerca che erano troppo giovani per la de-meritocrazia e oggi sono troppo vecchi per il giovanilismo.

Di: Marco Mondini
Ricercatore fondazione Bruno Kessler - Professore a contratto Università di Padova.

tratto dal blog mentepolitica al link:
http://www.mentepolitica.it/articolo/la-generazione-mai-i-precari-della-ricerca/60

C’è un fantasma che si aggira per i corridoi delle università italiane, quello di una generazione che non è mai stata.
Nati negli anni Settanta, studenti negli anni Novanta, questi spettri tra i trenta e i quarant’anni sono un paradosso vivente. Sono il primo segmento generazionale che ha fruito in modo massiccio dei dottorati di ricerca e di un sistema di borse ancora relativamente ricco. E costituiscono anche il primo gruppo anagrafico ad aver avuto compattamente la possibilità di vivere buone esperienze internazionali. Per un giovane studioso impegnato in una ricerca di buon livello, tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, trascorrere un soggiorno all’estero, candidarsi per partecipare ad un convegno internazionale, tentare di pubblicare su una rivista straniera non era solo una patente di nobiltà accademica, era quasi un obbligo morale. Ciò non significa che tutti abbiano fatto tesoro di queste opportunità, ma ci sono pochi dubbi che i trentenni e quarantenni che hanno affollato le selezioni per dottore di ricerca, e successivamente per borsista, assegnista e magari ricercatore rappresentino l’insieme mediamente più qualificato e dinamico che l’università italiana ricordi.
Nel migliore dei mondi possibili questa generazione di studiosi, costati molto alla collettività, sarebbero stati sistematicamente selezionati per permettere ai più bravi di occupare a loro volta una posizione da ricercatore o professore, restituendo al paese quanto avevano imparato, in termini di insegnamenti, scoperte, brevetti e idee.

In un mondo meno perfetto …
In un mondo un po’ meno perfetto, una parte rilevante di questi ex giovani studiosi, per quanto bravi, non avrebbero trovato una sistemazione. Se non altro, per l’innata tendenza di ogni corporazione a introdurre criteri di promozione (o cooptazione) che spesso non hanno molto a che fare con merito, innovazione e originalità. Succede ovunque. Chi pensa che nelle università e negli enti di ricerca francesi, tedeschi, britannici o statunitensi nepotismi e favoritismi di varia natura non allignino, è un arcade che si culla in sogni poetici.

Ma sulla scala ipotetica degli iperurani perfetti, dei mondi imperfetti e di quelli così così, il reclutamento universitario italiano degli ultimi due decenni si colloca molto in basso, più o meno al livello del peggiore degli universi pensabili. In Italia la selezione (esclusivamente) nepotistica e/o clientelare non è stata una delle vie possibili, è stata la via di accesso alla professione accademica, con l’eccezione di alcune minoranze che hanno difeso il fortilizio della qualità. Per spiegare questo suicidio collettivo si potrebbero chiamare in causa molti fattori. L’introduzione di un reclutamento su base locale ha certamente giocato la sua (cattiva) parte, trasformando i concorsi accademici in una permanente guerra per bande, fuori da ogni controllo. Non paradossalmente, quando il legislatore ha reintrodotto una forma di pre-selezione centralizzata, l’Abilitazione Scientifica Nazionale, l’impatto sul sistema è stato immediatamente e complessivamente positivo. L’ASN (che non è un concorso, ma un’abilitazione a numero aperto, differenza che un certo giornalismo sciatto fa fatica a comprendere) ha certo molti difetti, e alcuni giudizi sui candidati sono stati ingiusti e formulati in termini inutilmente offensivi, ma è l’unico strumento che abbia finalmente concesso la possibilità di scremare con criteri coerenti e verificabili la massa degli aspiranti alla carriera accademica.

Una svolta tardiva e contestata
Peccato che questa (potenziale) svolta sia arrivata tardi per quelle migliaia di giovani studiosi che attendevano da vent’anni. Che hanno percorso l’annosa trafila delle posizioni precarie, dalle borse biennali (e poi annuali, semestrali) agli assegni di ricerca ai co.co.co. Che sono stati professori a contratto sostenendo l’impalcatura della didattica per tempi bizzarramente lunghi, a volte pagati poco a volte nulla. Che hanno prodotto ricerche buone e talvolta ottime. E che nel frattempo si sono sentiti dire che era sempre troppo presto. Un’affermazione non strana in una (ex?) gerontocrazia. L’età media degli strutturati universitari di ogni grado (maggio 2014) è 51 anni: alla metà degli anni Ottanta, l’età media di un ricercatore era di 36 anni, un associato saliva in cattedra a 44 e un ordinario a 52 (fonte: CRUI e Rapporto CUN 2014).
Oggi questa generazione sempre troppo giovane scopre improvvisamente di essere diventata troppo vecchia. Le parole d’ordine del giovanilismo – segno distintivo della retorica politica degli ultimi tempi – prevedono che i destinatari delle lacrime (di coccodrillo) e delle attenzioni siano i giovani. Si intende, sotto i 29 anni (secondo le facilitazioni previste dal pacchetto lavoro), o sotto i 35 (secondo i criteri più elastici delle stesse università). Tutti gli altri sono una zavorra di cui non si sa bene come disfarsi. Non è un caso che quasi tutti i governi succedutisi ultimamente abbiano progettato almeno una volta, nell’entropia delle riforme continue, di introdurre limiti d’età per i concorsi. Quale migliore soluzione che risolvere il problema del precariato sbarazzandosi per legge dei precari?